IL CASTELLO SFORZESCO: la sua storia e l’edificio
Per secoli i Milanesi hanno considerato il Castello emblema di tirannide e dominio straniero. Più volte, in una lunga storia, i cittadini hanno tentato di attaccare e demolire l’odiato edificio. Solamente con l’Unità d’Italia, trasformandosi in un centro di cultura, il Castello è diventato caro ai Milanesi e simbolo della città.
La rocca viscontea “di Porta Giovia”
Galeazzo II Visconti, divenuto Signore della zona occidentale di Milano, costruisce, tra il 1360 e il 1370, una rocca a cavallo della cinta medievale, inglobando la pusterla di Porta Giovia o Zobia. Il successore Gian Galeazzo aggiunge alla costruzione, nel 1392, edifici per gli alloggiamenti delle truppe stipendiate. Le due parti della struttura sono separate dal fossato della cinta medievale, il cosiddetto fossato morto, e verranno collegate solo successivamente da Filippo Maria, l’ultimo dei Visconti. È proprio in questo periodo che il Castello, il più grande tra quelli edificati dai Visconti, di pianta quadrata di circa 180 metri di lato, munito di quattro torri anch’esse quadrate e di un ampio recinto, diventa residenza; i campi incolti sul lato nord-ovest si trasformano in un “zardinum” o “barcho”.
L’ultimo Signore della dinastia trascorre qui un’esistenza solitaria, confinandosi con la corte nell’immensa dimora in cui muore senza eredi legittimi. Lascia infatti una sola figlia, Bianca Maria, legittimata dall’Imperatore Sigismondo nel 1426 e andata in sposa nel 1441 al condottiero Francesco Sforza, chiamato da Filippo Maria Visconti a difendere il Ducato dai Veneziani.
Nel 1447, alla morte di Filippo Maria, i Milanesi proclamano la Repubblica Ambrosiana e la dimora di Porta Giovia, emblema del potere signorile, è in parte danneggiata.
Della rocca viscontea resta ancora oggi il basamento in pietra grigia di serizzo sul fossato morto e sui lati esterni della Rocchetta e della Corte Ducale.



Il Castello Sforzesco risorge
Il capitano di ventura di origine romagnola, Francesco Sforza, uomo di grandi capacità militari e di notevole abilità politica, già difensore di Milano al soldo di Filippo Maria Visconti, assedia la città a sua volta riuscendo, infine, a farsi accogliere dai Milanesi come liberatore. Il 25 marzo 1450 lo Sforza e la consorte Bianca Maria Visconti sono acclamati dal popolo come Signori di Milano.
Preso il potere, egli si preoccupa immediatamente di rinnovare il Castello visconteo. Conoscendo l’odio dei Milanesi per l’antico edificio, Francesco Sforza giustifica la ricostruzione con il desiderio di abbellire la città e di garantire la sua difesa contro i nemici esterni.
Coerentemente, nel 1452, affianca agli ingegneri militari Giovanni da Milano, Jacopo da Cortona, Marcoleone da Nogarolo, un architetto civile, il fiorentino Antonio Averulino detto il Filarete, incaricato di progettare la facciata verso la città, con l’alta torre centrale d’ingresso. L’architetto toscano, tuttavia, viene presto allontanato e i lavori passano sotto la direzione dell’architetto militare Bartolomeo Gadio, uomo di fiducia dello Sforza dal 1452. Commissario per le fortezze del Ducato, Gadio modifica la facciata verso la città aggiungendo due massicce torri angolari rotonde con rivestimento in serizzo a punta di diamante, più consone a resistere alle nuove artiglierie dell’epoca. Sul lato opposto, fortifica e amplia la “Ghirlanda”, una cortina muraria già esistente in età viscontea che, munita di due torri rotonde agli angoli e di una strada coperta, difende il fronte settentrionale.
I lavori di completamento e arricchimento del Castello si intensificano con il successore di Francesco Sforza. Dal 1468 Galeazzo Maria, il primogenito, si trasferisce nel Castello con la moglie Bona di Savoia, cognata del Re di Francia Luigi XI, e con la sua corte. In pochi anni vengono completate la Rocchetta e la Corte Ducale, si affrescano le sale e viene costruita e decorata la Cappella Ducale.
Il Castello si presenta a quest’epoca con l’ampio Cortile delle Armi, circondato da edifici, mentre, verso il parco, si affacciano gli appartamenti ducali e la Rocchetta, un complesso fortificato quadrato.
Ludovico il Moro
Galeazzo Maria muore nel dicembre 1476 per una congiura. La vedova Bona assume quindi la reggenza per il figlio ancora piccolo, Gian Galeazzo Maria e dal 1477 fa innalzare, per poter controllare l’intero Castello, la torre centrale, che ancora oggi porta il suo nome.
Ben presto però il fratello di Galeazzo Maria, Ludovico Maria detto il Moro, si appropria del potere, esiliando Bona. Colto, amante delle arti, il Moro chiama alla corte milanese, divenuta tra le più raffinate dell’epoca, grandi artisti, tra cui Donato Bramante e Leonardo da Vinci, di cui oggi possiamo ammirare la Sala delle Asse. Nel 1490 commissiona a Bartolomeo Suardi detto il Bramantino la decorazione della Sala del Tesoro






I lavori per rendere il Castello sempre più sfarzoso si interrompono nel 1497, quando la consorte del Moro, Beatrice d’Este, muore di parto, e si avvicinano le truppe francesi a Milano. Il Moro si prepara così a resistere all’attacco nemico. Fa pulire i fossati, coprire i rivellini, riempire i muri delle cortine, raduna all’interno viveri, munizioni e artiglierie. Ma temendo anche una rivolta popolare, il Moro si rifugia presso la corte dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, e lascia il castellano a custodire la dimora. Ludovico il Moro, dopo alterne vicende che lo portano a riconquistare Milano nel 1500, muore prigioniero in Francia nel 1508.
Le difese del Castello
Nel corso dei secoli il Castello e le sue difese hanno coinvolto e appassionato diversi progettisti e architetti, tra cui Leonardo da Vinci, chiamato a Milano da Ludovico il Moro nel 1482. Appunti e schizzi documentano l’attenzione del genio toscano nei confronti dell’architettura civile e di quella fortificata. In due disegni (Manoscritto B, Institut de France, Parigi; Codice Vallardi, 2282, Louvre, Départment des Arts Graphiques, Parigi) Leonardo reinventa, per la rocca milanese, strutture e difese fortificate.
I Rivellini
Opera muraria a forma di cuneo o di semicerchio, eretta sul davanti di una fortificazione come primo elemento avanzato di difesa e di resistenza
La costruzione, forse su resti viscontei, dei rivellini, avancorpi posti a protezione delle porte, iniziò con la ristrutturazione del Castello ad opera di Francesco Sforza. Dei rivellini sforzeschi rimangono due basi sul lato est del Castello, uno a difesa della Porta del Carmine, l’altro dove si innestavano le mura medievali della città e a ovest, il Rivellino di Porta Vercellina. Quest’ultimo, costruito in corrispondenza della Porta di Santo Spirito, è l’unico ad aver mantenuto visibile l’impianto sforzesco quadrangolare, anche se l’aspetto attuale è il risultato del restauro ad opera dell’architetto Luca Beltrami. Beltrami infatti, tra il 1911 e il 1914, ne ripristinò parte delle merlature, demolite al tempo degli Spagnoli, le pareti e le volte dei passaggi e degli ambienti interni. Per difendere la porta principale del Castello, Leonardo progettò, su commissione di Ludovico il Moro, un rivellino più moderno, di forma pentagonale, che venne realizzato ai tempi della dominazione francese di Luigi XII, tra il 1499 e gli inizi del 1500. Di questo baluardo rimangono poche tracce nascoste nel fossato.



La Ghirlanda
Oggi si riconoscono nel parco solamente pochi ruderi della Ghirlanda, ovvero le due torri angolari della cortina muraria e la Porta del Soccorso d’accesso al Castello. La “Ghirlanda” era la cinta muraria che, munita di due torri rotonde agli angoli e di una strada coperta, difendeva il fronte settentrionale del Castello di Porta Giovia, girando dal Rivellino di Santo Spirito a sud-ovest a quello di Santa Maria del Carmine, a nord-est. Già esistente in epoca viscontea, la fortificazione venne riparata e prolungata fino ai torrioni circolari da Francesco Sforza. Uno schizzo di Leonardo, databile tra il 1487 e il 1490, nel manoscritto B (Parigi, Institut de France) riporta una sezione della Ghirlanda e del Castello nell’angolo nord-ovest con tutte le misure della fortezza. Nel 1893 venne drasticamente demolito tutto il complesso sistema difensivo della Ghirlanda.



La strada coperta della Ghirlanda
La strada coperta e le sue diramazioni, collocate nella parete esterna (controscarpa) del fossato intorno al Castello, servivano per lo spostamento dei soldati dalla fortezza alla Ghirlanda. Questa strada, restaurata e attualmente percorribile nel tratto sopravvissuto alle demolizioni di fine Ottocento, fu realizzata in mattoni, con un soffitto voltato alto 2.80 metri, ed è illuminata da un centinaio di finestrelle affacciate sul fossato, dalle quali potevano sparare i tiratori scelti. Sono state individuate otto gallerie, probabilmente fornite di portoni, che si sviluppavano dalla strada coperta.
I fossati
Nel Castello si riconoscono due fossati. Quello che divide il Cortile delle Armi dalla Corte Ducale e dalla Rocchetta, oggi chiamato fossato morto, è l’antico fossato che difendeva la cinta di età comunale, a cavallo del quale sorse il Castello visconteo. Il fossato esterno alla fortezza, invece, attribuito ad epoca sforzesca venne interrato nel XVII secolo ed è stato riscavato tra il XIX e il XX secolo.



– MUSEO PIETÀ RONDANINI – MICHELANGELO
– MUSEO D’ARTE ANTICA
– SALA DELLE ASSE – LEONARDO DA VINCI
– PINACOTECA
– MUSEO DEI MOBILI E DELLE SCULTURE LIGNEE
– MUSEO DELLE ARTI DECORATIVE
– MUSEO DEGLI STRUMENTI MUSICALI
– MUSEO ARCHEOLOGICO – SEZIONE PREISTORIA E PROTOSTORIA
– MUSEO ARCHEOLOGICO – SEZIONE EGIZIA
– RACCOLTA DELLE STAMPE “ACHILLE BERTARELLI”
– GABINETTO DEI DISEGNI
– ARCHIVIO FOTOGRAFICO
– ARCHIVIO STORICO CIVICO E BIBLIOTECA TRIVULZIANA
– BIBLIOTECA D’ARTE
– BIBLIOTECA ARCHEOLOGICA E NUMISMATICA
– ENTE RACCOLTA VINCIANA
– GABINETTO NUMISMATICO E MEDAGLIERE
– CASVA (CENTRO DI ALTI STUDI SULLE ARTI VISIVE)
MUSEO PIETÀ RONDANINI – MICHELANGELO
Il gruppo scultoreo di Michelangelo giunse da Roma il primo novembre 1952 e restò fino all’estate del 1953 nella Cappella Ducale del Castello. Da alcuni anni lo studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti e Rogers) si stava dedicando al complesso compito di sistemare i Musei del Castello Sforzesco.
L’arrivo della Pietà costrinse gli architetti a modificare sostanzialmente la Sala degli Scarlioni, originariamente destinata a concludere il percorso museale con la scultura rinascimentale lombarda. Per accogliere la Pietà offrendo uno spazio isolato, i BBPR non esitarono a demolire le antiche volte della sala sottostante a quella degli Scarlioni, realizzate nel XV secolo.
Nello spazio così creato, circondata da una nicchia in pietra serena e raggiungibile scendendo una scalinata, la Pietà trovò la collocazione in cui è rimasta fino al 2015. Nell’allestimento del 1956 la Pietà poggiava su un’ara romana del I secolo d.C., che aveva costituito il suo basamento dagli inizi del Novecento.
Nel 1999, tuttavia, la collocazione non sembrò più adeguata. Il Comune di Milano bandì quindi un concorso internazionale di idee, per trovare una nuova convincente proposta di allestimento per la Pietà. Risultò vincitore del concorso Alvaro Siza, ma il suo progetto non venne realizzato.
Solamente nel 2012 l’allora assessore alla cultura del Comune di Milano Stefano Boeri diede inizio a un dibattito museografico che portò il soprintendente del Castello Sforzesco, Claudio Salsi, alla scelta di spostare l’ultima creazione di Michelangelo nell’antico Ospedale Spagnolo nel Cortile delle Armi del Castello.
L’OSPEDALE SPAGNOLO
Con la dominazione spagnola del Ducato di Milano, iniziata nel 1535, il Castello divenne sede della guarnigione iberica e venne dotato di aggiornate fortificazioni e di strutture di servizio necessarie alla vita dei soldati. Dopo la metà del secolo Sancho de Guevara y Padilla, castellano dal 1574 al 1580 e governatore di Milano dal 1580 al 1583 dotò il maniero di un ospedale per le truppe. Venne quindi ristrutturato per questa funzione un edificio addossato alla cortina muraria occidentale, verso Porta Vercellina, che fu ornato di dipinti sulla volta e sulle pareti. La data incisa in lettere romane MD/LXXVII (1576), ancora visibile oggi sul lato corto verso sud, indica probabilmente la conclusione dei lavori di abbellimento, data che coincide con lo scoppio in città della temibile morbo denominato “peste di San Carlo”.
L’ospedale era composto da una sala con tre campate quadrate, illuminate ognuna da una finestra che si affacciava sul Cortile delle Armi, e da tre locali laterali ricavati nella cortina muraria.
Adiacente all’ospedale, verso il fossato morto, era la spezieria (farmacia) con annessi un laboratorio, una stanza e la bottega. Questo ambiente, che era la vera e propria farmacia, era collegato con l’abitazione dello speziale. Appartenevano all’edificio anche un ripostiglio e un pollaio.
Le scarse notizie fino ad ora ritrovate fanno supporre che l’ospedale fosse in funzione ancora agli inizi dell’Ottocento.
Dopo lunghi lavori di restauro dell’edificio, il 2 maggio 2015 è stato inaugurato il nuovo museo dedicato alla Pietà Rondanini, nel sobrio e suggestivo allestimento dell’architetto Michele De Lucchi. Insieme alla Pietà sono esposte una medaglia di Leone Leoni con raffigurato il busto di Michelangelo, fusa nel tardo cinquecento, e il ritratto bronzeo dello scultore, desunto dalla sua maschera mortuaria in cera, realizzato dal suo allievo Daniele da Volterra.






Il giorno dopo la morte di Michelangelo, il 19 febbraio 1564, il notaio, inviato tempestivamente dal papa Pio IV nella bottega romana dell’artista, stese un inventario di tutti i suoi beni. Tra le opere presenti si menziona un gruppo scultoreo come “un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”, oggi identificato con la Pietà Rondanini.
Dopo quell’inventariazione, sfortunatamente, si perdono per diversi secoli le tracce dell’opera, ad eccezione di una incerta notizia secondo cui nel 1652 la scultura sarebbe a Roma.
Bisogna arrivare al 13 agosto 1807 perché riemergano notizie sicure sulla Pietà, che risulta di proprietà del marchese Giuseppe Rondinini (nome poi modificato in Rondanini), collezionista di dipinti e di oltre duecento sculture, molte delle quali contraddistinte, come anche la Pietà, dalla sigla M.G.R. N. I
Nell’inventario redatto dal perito scultore Carlo Albacini qualche anno dopo la morte del Rondanini viene citata la Pietà, di cui, però, si nega la paternità di Michelangelo. Albacini, infatti, la considera una scultura moderna, deprezzandone così il valore. Ed è proprio per questo equivoco che la Pietà, nel corso dell’Ottocento, seguì le sorti del palazzo Rondanini senza suscitare alcun interesse tra storici dell’arte e collezionisti. Si ignorò persino il collegamento che nel 1857 John Charles Robinson, direttore del South Kensington Museum di Londra, fece tra la Pietà e gli schizzi di Michelangelo per una Pietà scoperti nell’Ashmolean Museum di Oxford.
Nel 1904 l’ultimo proprietario, il principe Odescalchi, vendette al conte Roberto Sanseverino Vimercati il palazzo Rondanini con i suoi arredi, compresa la Pietà. Lo Stato italiano, che in quel momento grazie alla legge del 1902 avrebbe potuto rivendicare il diritto di prelazione sull’opera notificata, non ritenne opportuno l’acquisto. Fu solo dal 1909 che si risvegliò l’interesse verso il gruppo scultoreo grazie a nuove interpretazioni e studi su Michelangelo. Nel 1949 in seguito ad una battaglia legale tra eredi, la Pietà fu messa in vendita. Fu acquistata, nel 1952, dal Comune di Milano, che la trasferì nelle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco.
Finalmente, come abbiamo detto, il 2 maggio 2015 la Pietà Rondanini trova una nuova collocazione sempre nel Castello Sforzesco in uno spazio interamente dedicato a lei. L’antico ospedale spagnolo, restaurato, diventa il nuovo Museo Pietà Rondanini.
Il tema del compianto sul Cristo morto ritorna più volte nell’attività artistica di Michelangelo. Il grande scultore toscano realizzò la sua prima Pietà nel 1498-1499 su commissione del cardinale Jean de Bilhères de Lagraulas, abate di Saint-Denis. Unica opera firmata da Michelangelo, il gruppo, conservato in San Pietro in Vaticano mostra una Vergine molto giovane in atto di tenere sulle ginocchia, sostenendolo, il corpo appena morto del figlio.
Nasce invece per ornare la tomba dello scultore la deposizione nota come Pietà Bandini, conservata al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Nel 1553 l’artista, insoddisfatto del gruppo ancora solo abbozzato, in cui erano Nicodemo, Maria e Maddalena intorno a Cristo deposto dalla Croce, lo distrugge. I frammenti vengono regalati al banchiere Francesco Bandini, che incarica lo scultore Tiberio Calcagni di ricomporli. La Maddalena è interamente opera del Calcagni, mentre in Nicodemo si riconosce un autoritratto di Michelangelo.



L’iconografia della Pietà nasce dal Compianto su Cristo morto, tema non narrato diffusamente nei Vangeli ma molto rappresentato per la sua valenza umana e sentimentale.
Il gruppo di persone intorno a Gesù deposto dalla Croce si restringe a partire dal Trecento alle figure di madre e figlio, in una sorta di drammatico controcanto del soggetto corrispondente, ovvero della coppia formata dalla Vergine e dal Bambino. Nella Pietà parla la disperazione solitaria di Maria, che tiene per l’ultima volta il figlio sulle ginocchia, prima di consegnarlo alla sepoltura. Cara alla grande mistica tedesca del XIV secolo, la Pietà si diffonde in Italia attraverso dipinti e gruppi lignei scolpiti di origine transalpina, suscitando in Michelangelo (Caprese, Arezzo, 1475 – Roma, 1564), oltre un secolo più tardi, un’appassionata meditazione, che percorre la sua intera esistenza.
La genesi della Pietà Rondanini
Ultima espressione artistica di Michelangelo, la Pietà Rondanini raffigura, con una impostazione inedita rispetto allo schema da lui adottato in gioventù in altri gruppi scultorei, una commovente e intensa deposizione di Gesù morto sorretto dalla Madre in piedi prima della sepoltura. Un foglio con cinque schizzi a matita di Michelangelo, conservato all’Ashmolean Museum di Oxford (inv. WA1846.85), documenta lo studio e l’interesse per questo tema a lui così caro.
Dalle poche notizie arrivate a noi sull’ultima Pietà si è ipotizzato che Michelangelo avesse cominciato a sbozzare il marmo tra il 1553 e il 1555. Nel 1553, infatti, nella biografia sull’artista di Ascanio Condivi la Pietà non è menzionata, mentre nel 1555 Vasari racconta che Michelangelo, dopo aver ridotto a frammenti la Pietà Bandini, avrebbe ripreso a scalpellare su un pezzo di marmo in cui aveva “già abbozzato un’altra Pietà, varia da quella, molto minore”, identificata oggi dagli studiosi con la Pietà Rondanini.
L’artista negli ultimi dieci anni della sua vita lavorò a questo gruppo scultoreo a più riprese, con continui ripensamenti e cambiandone in corso d’opera l’impostazione. Mutò le proporzioni del corpo di Cristo, di cui smagrì busto e gambe, abbassò e assottigliò la testa, inizialmente pensata più in alto e più vicina a quella della Madre, il cui capo, invece, era volto verso destra, per chi guarda, e divergente. Impostò diversamente anche le braccia di Gesù, appoggiate e fuse al corpo della Madonna.
Due lettere dell’allievo Daniele da Volterra, indirizzate a Giorgio Vasari e al nipote Leonardo Buonarroti nei mesi successivi alla morte di Michelangelo, raccontano che l’artista continuò instancabile a scalpellare quest’opera, voluta solamente per se stesso e considerata il suo testamento, fino a pochi giorni prima di morire, all’età di ottantanove anni.
La visita guidata al Sestiere di Porta Vercellina attraversa una delle zone più antiche della città, che prendeva il nome dal varco romano che sorgeva alla confluenza dell’attuale via di San Giovanni sul Muro con corso Magenta. Verrà ribattezzato di Porta Magenta dopo l’Unità di Italia, in ricordo della vittoriosa battaglia della seconda guerra di indipendenza Italiana. All’arco romano era succeduto, nei pressi dell’attuale piazzale Baracca, quello neoclassico, la cui demolizione di fine Ottocento ci resta documentata da suggestive foto in bianco e nero.
Emergenza storica e architettonica del quartiere è la Basilica di Sant’Ambrogio, nelle cui vicinanze l’omonima pusterla rappresenta l’unica sopravvivenza tra le dodici porte minori che scandivano la cerchia muraria medievale.
Da lì, seguendo il corso di strette viuzze si giunge sul tratto iniziale di corso Magenta, dove vestigia della Milano romana come la torre della cinta muraria massimianea e quella dei carceres del circo entrano a stretto contatto con il gioiello rinascimentale di San Maurizio al Monastero Maggiore e si fronteggiano con il sei-settecentesco Palazzo Litta.
Il corso prosegue in direzione ovest aprendosi poi nella piazza su cui si erge Santa Maria delle Grazie e dove la Casa degli Atellani nasconde la vigna di Leonardo, dono di Ludovico al grande artista toscano, impegnato alla realizzazione del Cenacolo.