Leonardo di ser Piero da Vinci
Eccezionale testimonianza della presenza di Leonardo da Vinci (1452-1519) alla corte sforzesca, la Sala delle Asse è l’ambiente più illustre del Castello. Collocata al piano terra della torre angolare posta a nord-est, la Falconiera, la sala deve il suo nome al rivestimento ligneo che in età sforzesca si utilizzava per rendere alcuni ambienti meno freddi e più confortevoli. Ornata di affreschi a motivi araldici per Galeazzo Maria Sforza, la sala ha ricevuto sotto Ludovico il Moro la celebre decorazione leonardesca, nel 1498. Se alcune missive tra il Moro e il grande artista permettevano di conoscere l’esistenza di una decorazione di Leonardo, i secoli bui vissuti dal Castello sotto le dominazioni straniere sembravano aver nascosto per sempre il ciclo dipinto.
Si deve alle ricerche dell’architetto Luca Beltrami e soprattutto dello storico tedesco Paul Müller-Valde il rinvenimento nel 1893 di significative tracce di pittura nella volta, cui seguì un ampio restauro compiuto da Ernesto Rusca nel 1902, che reinterpretò la decorazione quattrocentesca ricreando un insieme a colori straordinariamente vivaci. Le tracce di monocromo scoperte sulle pareti, invece, attribuite erroneamente all’epoca spagnola, furono nascoste dall’allestimento di quegli anni.
Negli anni Cinquanta del Novecento il colore della volta venne attenuato, senza però cancellare gli interventi dei primi del secolo, mentre i frammenti a monocromo con radici e rocce sulle pareti nord e nord-est della sala furono attribuiti alla mano di Leonardo e lasciati visibili nell’allestimento dello studio BBPR.
Dal 2013 la Sala delle Asse è oggetto di un nuovo restauro che ha rivelato nuovi frammenti a monocromo sulle pareti.
La Sala delle Asse, sala VIII del pecorso del Museo d’Arte Antica, è chiusa al pubblico per i lavori di restauro.




Leonardo di ser Piero da Vinci (Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519) è stato uno scienziato, inventore e artista italiano.
Uomo d’ingegno e talento universale del Rinascimento, considerato uno dei più grandi geni dell’umanità, incarnò in pieno lo spirito della sua epoca, portandolo alle maggiori forme di espressione nei più disparati campi dell’arte e della conoscenza: scienziato, filosofo, architetto, pittore, scultore, disegnatore, anatomista, botanico, musicista, geologo, matematico, ingegnere e progettista.
Leonardo da Vinci fu il figlio primogenito nato da una relazione illegittima tra il notaio ventiseienne Piero da Vinci e Caterina di Meo Lippi, donna d’estrazione sociale modesta. La notizia della nascita del primo nipote fu annotata dal nonno Antonio, padre di Piero e anch’egli notaio, su un antico libro notarile trecentesco, usato come raccolta di “ricordanze” della famiglia, dove si legge: «Nacque un mio nipote, figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile del 1452 in sabato a ore 3 di notte [secondo il calendario gregoriano il 23 aprile alle ore 21:40]. Ebbe nome Lionardo.» «Battizzollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Tonino, Pier di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigo di Giovanni Tedesco, monna Lisa di Domenico di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Niccolosa del Barna, monna Maria, figlia di Nanni di Venzo, monna Pippa di Previcone». Nel registro non è indicato il luogo di nascita di Leonardo, che si ritiene comunemente essere la casa che la famiglia di ser Piero possedeva, insieme con un podere, ad Anchiano, dove la madre di Leonardo andrà ad abitare. Il battesimo avvenne nella vicina chiesa parrocchiale di Santa Croce, ma sia il padre sia la madre erano assenti, poiché non sposati. Per Piero si stavano preparando ben altre nozze, mentre per Caterina fu cercato, nel 1453, un marito che accettasse di buon grado la sua situazione “compromessa”; fu così trovato un contadino di Campo Zeppi, vicino a Vinci, tale Piero del Vacca da Vinci, detto l’Attaccabriga, che forse, come il fratello Andrea, faceva anche il mestiere del mercenario.
Nel frattempo, già nel 1452, il padre Piero si era sposato con Albiera di Giovanni Amadori. La lieta accoglienza del bambino, nonostante il suo status illegittimo per l’epoca, è testimoniata, oltre che dall’annotazione del nonno, anche dalla sua presenza nella casa paterna di Vinci. Ciò si legge nella dichiarazione per il catasto di Vinci dell’anno 1457, redatta sempre dal nonno Antonio, dove si riporta che il detto Antonio aveva 85 anni e abitava nel popolo di Santa Croce, marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne, e con loro convivente era «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legittimo nato di lui e della Chaterina che al presente è donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, da anni 5».
La matrigna Albiera morì appena ventottenne nel 1464, quando la famiglia risiedeva già a Firenze. Ser Piero si risposò altre tre volte: nel 1465 con la quindicenne Francesca di ser Giuliano Lanfredini, che morì giovane; nel 1475 con Margherita di Francesco Giulli, dal 1485 con Lucrezia di Guglielmo Cortigiani.
Leonardo ebbe “almeno sedici” fratellastri e sorellastre, tutti molto più giovani di lui (l’ultimo nacque quando Leonardo aveva quarantasei anni), con i quali ebbe pochissimi rapporti, ma che gli diedero molti problemi dopo la morte del padre nella contesa sull’eredità. Essi erano: Antonio (1476), Maddalena (1477), Giuliano (1479), Lorenzo (1484), Violante (1485), Domenico (1486), Margherita (1491), Benedetto (1492), Pandolfo (1494), Guglielmo (1496), Bartolomeo (1497), Giovanni (1498). Inoltre ebbe altri nove fratellastri da parte della madre, di cui di cinque si sanno i nomi: Piera (1454), Maria (1457), Lisabetta (1459), Francesco (1461) e Sandra (1463). Nel trattato Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori del Vasari pubblicato nel 1550 nelle pagine dedicate a Leonardo da Vinci viene scritto: «Adunque mirabile e celeste fu Lionardo, nipote di Ser Piero da Vinci, che veramente bonissimo zio e parente gli fu, nell’aiutarlo in giovinezza», mentre l’Anonimo Gaddiano, il cui manoscritto fu redatto intorno al 1540 ed è conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, dice che: «Quantunque non funse legittimo figliuolo di Ser Piero da Vinci, era per madre nato di buon sangue.»
Tra Vinci e Firenze (1462-1468)
Ser Piero aveva già lavorato a Firenze e nel 1462, a dire di Giorgio Vasari, vi ritornò con la famiglia, compreso il piccolo Leonardo. Il padre Piero avrebbe mostrato all’amico Andrea del Verrocchio alcuni disegni di tale fattura che avrebbero convinto il maestro a prendere Leonardo nella sua bottega; è in realtà alquanto improbabile che un apprendistato cominciasse ad appena dieci anni, per cui l’ingresso di Leonardo nella bottega del Verrocchio è oggi ritenuto posteriore.
Si pensa infatti che Leonardo restasse in campagna nella casa dei nonni, dove avvenne la sua educazione, piuttosto disordinata e discontinua, senza una programmazione di fondo, a cura del nonno Antonio, dello zio Francesco e del prete Piero che l’aveva battezzato. Il fanciullo imparò infatti a scrivere con la sinistra e a rovescia, in maniera del tutto speculare alla scrittura normale. Vasari ricordò come il ragazzo nello studio cominciava «molte cose […] e poi l’abbandonava» e nell’impossibilità di avviarlo alla carriera giuridica il padre decise di introdurlo alla conoscenza dell’abaco, anche se «movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gl’insegnava, bene [che] spesso lo confondeva».

Firma di Leonardo da Vinci del 1507
Firenze (1468-1482)

Leonardo da Vinci, statua nel piazzale degli Uffizi a Firenze
Quando il nonno di Leonardo morì settantaseienne nel 1468 citò nel suo testamento “Lionardo”, assieme alla nonna Lucia, al padre Piero, alla nuova matrigna Francesca Lanfredini, e agli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, insieme con quella dello zio Francesco, che era iscritto all’Arte della Seta, risultava domiciliata in una casa fiorentina, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi, accanto a piazza della Signoria.
Nella bottega di Andrea del Verrocchio
Diventando ormai sempre più evidente l’interesse del giovane Leonardo nel “disegnare et il fare di rilievo, come cose che gl’andavano a fantasia più d’alcun’altra”, ser Piero mandò infine il figlio, dal 1469 o 1470, nella bottega di Andrea del Verrocchio, che in quegli anni era una delle più importanti di Firenze, nonché una vera e propria fucina di nuovi talenti.
Tra i suoi allievi figuravano nomi che sarebbero diventati i grandi maestri della successiva generazione, come Sandro Botticelli, Perugino, Domenico Ghirlandaio.
Inoltre gli allievi apprendevano nozioni di carpenteria, meccanica, ingegneria e architettura.
Leonardo si trova menzionato nella Compagnia di San Luca, dei pittori fiorentini, nel 1472; ciò significa che a quell’epoca era già riconosciuto come pittore autonomo, la cui esperienza formativa poteva dirsi conclusa, sebbene la sua collaborazione col maestro Verrocchio si protraesse ancora per diversi anni.
Ancora secondo Vasari, la bravura di Leonardo nella prova del Battesimo di Cristo (oggi agli Uffizi) avrebbe spinto Verrocchio, restio a un confronto diretto che cominciava a vederlo perdente, a dedicarsi esclusivamente alla scultura. In realtà l’aneddoto è scartato dalla critica moderna, propensa a ritenerlo un’enfatizzazione arbitraria del tema letterario dell'”allievo che supera il maestro” operata dallo storico aretino.
Vasari ricordò come Leonardo operò anche “nella scultura, facendo, nella sua giovanezza, di terra alcune teste di femine che ridono, che vanno, formate per l’arte di gesso, e parimente teste di putti, che parevano usciti di mano d’un maestro”. Non si conosce tuttavia alcuna opera scultorea sicura di Leonardo.
Alla fine comunque l’unico esperimento sicuro con la scultura di Leonardo fu l’incompiuto Monumento a Francesco Sforza.
Le prime opere indipendenti di Leonardo sono oggi datate tra il 1469 e i primi anni settanta, ancora prima del Battesimo. In questi lavori, su cui il dibattito critico è stato molto acceso, l’artista mostra una forte adesione al linguaggio comune degli allievi di Verrocchio.
Al 1474 risale il Ritratto di donna (esposto a Washington), identificata con Ginevra de’ Benci – così si spiega il ginepro dipinto alle sue spalle. Si tratta della figlia di un importante mercante fiorentino, il che dimostra come Leonardo potesse accedere a commissioni da parte della ricca borghesia fiorentina. L’opera mostra sempre più chiari gli influssi della pittura fiamminga, nelle luminescenze della capigliatura, nell’attenzione alla resa luminosa tramite il colore. Vi si trova però anche la caratteristica resa atmosferica tra personaggio in primo piano e paesaggio, oltre alla particolare tecnica di sfumare coi polpastrelli i colori, soprattutto nella realistica epidermide.
Dal gennaio 1474 all’autunno 1478 non si conoscono opere di Leonardo. Questo silenzio è particolarmente strano se si considera come negli anni precedenti la carriera di Leonardo stesse definitivamente decollando, con alle spalle un padre influente e facoltoso, che lo mantenne almeno fino al 1480 e che sicuramente poteva aiutarlo nel procurarsi le commissioni.
Si è ipotizzato quindi che il poco più che ventenne Leonardo fosse ancora incerto sul proprio futuro, avvicinandosi al mondo della scienza con la frequentazione dell’anziano geografo e astronomo Paolo dal Pozzo Toscanelli. Probabilmente ebbe modo di approfondire l’anatomia assistendo alla dissezione dei cadaveri nelle camere mortuarie degli ospedali, ma dovette studiare anche la fisica e la meccanica tramite esperimenti diretti.
Presunta omosessualità
Che Leonardo possa essere stato omosessuale è un’ipotesi che secondo alcuni studiosi sarebbe avvalorata da alcuni documenti e altri indizi, a partire dalla doppia denuncia anonima del 9 aprile 1476 in cui era accusato – insieme ad altre persone – di sodomia consumata verso il diciassettenne Jacopo Saltarelli, residente in via Vacchereccia (accanto a piazza della Signoria). Anche se nella Firenze dell’epoca c’era una certa tolleranza verso l’omosessualità, la pena prevista in questi casi era severissima: l’evirazione per i sodomiti adulti e la mutilazione di un piede o della mano per i giovani. Oltre a Leonardo, tra gli inquisiti vi erano altri personaggi, ma soprattutto vi era Leonardo Tornabuoni che è annotato come vestito di “nero” (la stoffa più costosa, prerogativa dell’alta società): egli era infatti un giovane rampollo della potentissima famiglia (appunto Tornabuoni) imparentata con i Medici. Un’identica denuncia fu presentata anche nel giugno dello stesso anno. Fu proprio il coinvolgimento del Tornabuoni che avrebbe giocato a favore degli accusati: l’accusa fu infatti archiviata e gli imputati furono tutti “absoluti cum conditione ut retumburentur“, ” perdonati (o liberati) salvo che non vi siano altre denunce in merito”. La denuncia riporta come comunque Leonardo a quella data fosse ancora a bottega da Verrocchio.
Secondo altri studiosi, le accuse che portarono al giudizio erano calunniose e create al solo fine di screditare gli interessati tramite l’accusa del reato di sodomia.
In ogni caso, non sono note relazioni di Leonardo con donne, non si sposò mai, non ebbe figli e lo stesso Vasari pubblicò accenni alla bellezza dei suoi discepoli. Secondo alcuni è controverso il rapporto con i suoi allievi Melzi e Caprotti (detto il Salaì) molto più giovani di lui e avvenenti: forse furono semplici garzoni, ma alcuni congetturano che oltre al discepolato si fosse instaurato un legame pederastico. Per quanto riguarda il comportamento sessuale di Melzi sappiamo soltanto che dopo la morte di Leonardo rientrò in patria, si sposò, ebbe otto figli e fu sempre ben considerato tra i più importanti patrizi milanesi.
Charles Nicholl (2004) asserisce che «è oramai largamente accettato che Leonardo fosse omosessuale» e considera omoerotici alcuni suoi disegni di nudi maschili, tra cui specialmente l’Angelo incarnato, che ritrae un efebo androgino dalle sembianze del Salaì in evidente erezione; tuttavia egli ritiene che Leonardo fosse «non esclusivamente» omosessuale.

Ritratto di Gian Giacomo Caprotti, detto Salaì, di anonimo, 1495 circa, Vaduz, Fondazione Alois

Leonardo da Vinci, Angelo incarnato, 1513-1515 circa, Collezione privata
Un foglio del Codice Atlantico (186v = ex 66v-b) contiene in scrittura sinistrorsa un ricordo d’infanzia di Leonardo:
«Questo scriver sì distintamente del nibio par che sia mio destino, perché ne la prima ricordatione della mia infantia e’ mi parea che, essendo io in culla, che un nibbio venissi a me e mi aprissi la bocha cholla sua coda e molte volte mi percotessi con tal coda dentro alle labbra.»
Sigmund Freud, nel suo opuscolo Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, pubblicato nel 1910, lo interpretò come fantasia di un atto sessuale orale, mentre il nibbio rappresenterebbe androginicamente la madre; dalla curiosità sessuale infantile dell’artista deriverebbe la sua curiosità artistica e scientifica mai soddisfatta e conclusa.
LEONARDO A MILANO

Sul finire del Quattrocento, Leonardo da Vinci visse a Milano, dove alla corte del duca Ludovico il Moro trascorse quasi vent’anni in qualità di pittore, scenografo, ingegnere e scienziato.
Dopo più di 500 anni dalla morte del grande genio fiorentino, sono ancora molte le tracce del suo passaggio in città.
LA PINACOTECA AMBROSIANA E CODICE ATLANTICO
Fondata all’inizio del Seicento da Federico Borromeo, la Pinacoteca Ambrosiana è una delle più ricche collezioni al mondo. Tra tanti capolavori di Raffaello, Tiziano, e Caravaggio, la Pinacoteca Ambrosiana conserva il celeberrimo Ritratto di musico di Leonardo da Vinci e il Codice Atlantico, costituito da 1119 fogli disegnati dal grande maestro toscano, esposti a rotazione.

Non si conoscono la collocazione originaria e le circostanze della commissione del dipinto; si trovava sicuramente all’Ambrosiana nel 1671. Forse era stato donato nel 1637 dal marchese Galeazzo Arconati con il Codice Atlantico, oppure potrebbe essere il ritratto “del duca Gian Galeazzo Visconti” ricordato nella donazione di Federico Borromeo assieme a una fantomatica “Testa del Petrarca” come opere di Leonardo.
Nel XIX secolo venne interpretato come ritratto di Ludovico il Moro, in dittico con quello (presunto) di Beatrice d’Este (inv. 100). Con la pulitura del 1904 si riscoprì lo spartito musicale, coperto da una ridipintura, che contiene la scritta “Cant… Ang…”, seguita da una partitura musicale. Da questo indizio si è risaliti all’identificazione con Franchino Gaffurio, maestro di cappella del Duomo di Milano dal 1484 nonché compositore di un “Cantum Angelicum“, cioè l’Angelicum ad divinum opus.
Altre ricerche hanno ipotizzato che il soggetto del quadro possa essere un compositore franco-fiammingo, contemporaneo di Leonardo e attivo a Milano.
Il soggetto del ritratto è stato identificato con Galeazzo Sanseverino, genero di Ludovico il Moro e capitano generale delle milizie sforzesche, per le notevoli somiglianze riscontrate con quello nel Ritratto di Luca Pacioli (anch’esso considerato opera leonardesca), dove possiamo notare corrispondenze nella folta capigliatura riccia, nei tratti del viso e nell’apertura del farsetto dal quale sbuffa un tratto di camicia che richiama una lancia, a simboleggiare la potenza virile di Galeazzo nelle giostre. Altri studiosi hanno puntato invece sulla stretta somiglianza coi ritratti certi del padre di Galeazzo, Roberto Sanseverino, i cui lineamenti del viso mostrano parecchi tratti in comune. L’identificazione era già stata proposta alla fine del XIX secolo da studiosi tedeschi come Paul Müller-Walde, avendo forse maggiore familiarità con le fattezze di Roberto, la cui lastra tombale trovasi nel Duomo di Trento. A sostegno di questa tesi, Piero Misciatelli ricorda che Galeazzo fu in effetti grande amico e protettore sia di Leonardo sia di fra’ Luca Pacioli e che, proprio come Ludovico e Beatrice, doveva certamente essere appassionato di musica. Altri vi riconobbero anche i tratti del padre Roberto, prima che critici d’arte italiani proponessero invece l’identificazione con Franchino Gaffurio.
Il soggetto, un giovane dalla folta capigliatura, è ritratto a mezzo busto di tre quarti, girato verso destra. Lo sguardo è distante, ma vivo e intelligente, trattato con un forte chiaroscuro che lo fa emergere in tutta la sua plasticità.
Codice Atlantico
Il Codice Atlantico (Codex Atlanticus) è la più ampia raccolta di disegni e scritti di Leonardo da Vinci. È conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano.
La denominazione atlantico deriva dal formato dei fogli su cui vennero incollati i disegni di Leonardo, normalmente utilizzato per gli atlanti geografici.
I fogli sono assemblati senza un ordine preciso e abbracciano un lungo periodo degli studi leonardeschi, il quarantennio dal 1478 al 1519, secondo diversi argomenti tra i quali anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica, disegni di macchine, studi sul volo degli uccelli e progetti d’architettura.
Al suo interno si è sempre affermato esservi collocati 1750 disegni, tutti di mano di Leonardo. In realtà, i disegni erano 1751.
Durante il restauro tutti i disegni furono staccati dai fogli e a pagina 1033 già 370 (antica numerazione 51) venne rimosso un disegno di 21 x 16 cm, attualmente posto sul foglio 1035 recto: sotto al foglio staccato apparvero evidenti tracce di colla, questo a dimostrazione che lì vi era incollato un disegno più piccolo di cui non si aveva avuto notizia. Questo foglio, di cui si erano perse le tracce, sarebbe stato ritrovato nel 2011.
Nel 1519, alla morte di Leonardo, la raccolta dei suoi manoscritti fu ereditata da Francesco Melzi, che nel 1523 giunse a Milano.
«Fu creato de Leonardo da Vinci et herede, et ha molti de suoi secreti, et tutte le sue opinioni, et dipinge molto ben per quanto intendo, et nel suo ragionare mostra d’haver iuditio et è gentilissimo giovane. […] Credo ch’egli habbia quelli libricini de Leonardo de la Notomia, et de molte altre belle cose.»
(da una lettera da Milano ad Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, 6 marzo 1523)
Alla morte di Francesco Melzi, avvenuta attorno al 1570, i manoscritti conservati nella villa di Vaprio d’Adda furono affidati al figlio primogenito Orazio e successivamente presero strade diverse a causa di sottrazioni e cessioni.
Grazie a una breve cronaca lasciata da Giovanni Ambrogio Mazenta, è possibile ricostruire, anche se in modo vago, le vicende di parte dei testi. La famiglia Melzi aveva come insegnante Lelio Gavardi d’Asola, che attorno al 1587 sottrasse 13 libri di Leonardo per portarli a Firenze al granduca Francesco. Essendo però morto il granduca, il Gavardì si trasferì a Pisa insieme ad Aldo Manuzio il Giovane, suo parente; qui incontrò il Mazenta, al quale lasciò i libri affinché li restituisse alla famiglia Melzi. Il Mazenta li riportò a Orazio Melzi, che però non si interessò del furto e gli donò i libri; il Mazenta li consegno al fratello.
Lo scultore Pompeo Leoni, informato della presenza di manoscritti di Leonardo, li chiese a Orazio Melzi per il re Filippo II; ottenne la restituzione anche di sette volumi dai Mazenta, ai quali ne rimasero sei. Di questi sei, tre furono da loro donati rispettivamente all’arcivescovo Federico Borromeo, al pittore Ambrogio Figino e a Carlo Emanuele I di Savoia, mentre gli altri tre in seguito furono ottenuti da Pompeo Leoni, che entrò così in possesso di un numero imprecisato di manoscritti e carte.
Nel 1589 Leoni, impegnato in lavori al monastero dell’Escorial, si trasferì in Spagna. Qui utilizzò il materiale di Leonardo in suo possesso (probabilmente smembrando anche codici già rilegati) per formare nuove raccolte; sulle pagine vuote di un “gran libro” incollò fogli o disegni ritagliati; in alcuni casi creò aperture nelle pagine per permettere la visione del retro dei fogli incollati.
Secondo Luca Beltrami nel volume incluse anche alcune riproduzioni e disegni non originali.
Questo volume, insieme ad altri manoscritti, fu poi riportato in Italia da Leoni, forse nel 1604.
Il Leoni morì nel 1608 e furono suoi eredi i due figli maschi, Michelangelo († 1611) e Giovanni Battista († 1615), morti pochi anni dopo. Una lettera del 1613 riporta una lista di beni leonardeschi che Giovanni Battista cercò di vendere a Cosimo II de’ Medici, comprendente il “gran libro”, quindici manoscritti minori e alcuni disegni; all’epoca Pompeo Leoni era indicato anche come «Aretino».

Balestra gigante (c. 53v)
«Un libro di 400 fogli in circa, e li fogli sono alti più d’un braccio e in ogni foglio sono diversi fogli incollati di macchine d’arte segrete, e d’altre cose di Leonardo detto, cosa che veramente stimo degna di S.A. e la più curiosa che fra le altre vi sia, dice l’Aretino averne trovato mezzo ducato della carta, però cento scudi ci sarebbon ben spesi, se per tal prezzo si potesse havere»
(Estratto dalla lettera da Alessandro Beccari a Andrea Cioli, 18 settembre 1613)
Non si raggiunse un accordo per la vendita. Nel luglio 1615 la possibilità di acquistare il volume suscitò l’interesse del cardinale Federico Borromeo.
«Il Como è venuto da me con certa occasione et mi ha detto che vi è da vendere un libro, che già fu dell’Aretino, pieno di disegni. Questo libro era tenuto in tanto prezzo dal morto Aretino, che mai si vergognava di domandarne mille scudi; et però, quando me ne fu parlato, io me ne risi. Adesso è stato stimato quaranta scudi, et si puó pigliare, perché è una gioia.»
(Lettera di Federico Borromeo, 25 luglio 1615)
Però dal maggio 1615, con la morte di Giovanni Battista, era iniziata una disputa per l’eredità di Pompeo Leoni tra altri due figli: un figlio illegittimo che aveva l’identico nome del padre e la figlia Vittoria (n. 1571), moglie di Polidoro Calchi († 1632). Solo dopo un accordo concluso nel 1621 Vittoria e il marito poterono iniziare la vendita dei manoscritti.
Galeazzo Arconati e la Biblioteca Ambrosiana

Galeazzo Arconati
Tra il 1622 e il 1630 il Calchi vendette al conte Galeazzo Arconati (circa 1580 – 1649) vari manoscritti, compreso il “gran libro”. Non è nota la data esatta della cessione, ma esiste una ricevuta del 28 agosto 1622 rilasciata da Francesco Maria Calchi, figlio di Polidoro, che indicava una somma di 445 ducatoni dovuta dall’Arconati.
Galeazzo Arconati era legato a Federico Borromeo, suo parente per parte di madre e suo tutore in gioventù.

Forse proprio per questo legame, con atto del 21 gennaio 1637 egli donò dodici manoscritti di Leonardo alla Biblioteca Ambrosiana, fondata dal Borromeo nel 1609.
«Il primo è un libro grande, cioè lungo oncie tredici da legname et largo oncie nove e mezza, coperto di corame rosso stampato con duoi fregi d’oro con quattro arme d’aquile, e leoni, e quattro fiorami nelli cartoni tanto da nna parte, quanto dall’altra esteriormente, con lettere d’oro d’ambo le parti, che dicono DISEGNI DI MACHINE ET DELLE ARTI SECRETE, E ALTRE COSE DI LEONARDO DA VINCI, RACCOLTI DA POMPEO LEONI, nella schiena vi sono sette fiorami d’oro, con quattordeci fregi d’oro, il qual libro è di fogli trecento novantatrè di carta reale per rispetto dello sfogliato, ma vi ne sono altri fogli sei di più dello sfogliato, si che sono fogli in tatto num. 399 nei quali vi sono riposte diverse carte di disegni al num. di mille settecentocinquanta.»
(Dall’atto di donazione, 1637)
A ringraziamento del donatore venne posta una lapide nella Biblioteca sormontata da un tondo con un busto in rilievo.


Come riportato dall’atto di donazione, il “libro grande” aveva dimensioni notevoli (un’oncia da legname era pari a circa 5 centimetri), che all’epoca erano utilizzate per gli atlanti; per questo alla fine del Settecento era indicato essere in formato “atlantico”, dando origine al nome con cui è tuttora conosciuto. Nella Biblioteca per conservare il codice venne realizzata una cassetta su misura, posta sopra un tavolo riccamente decorato; nella cassetta era disponibile anche uno specchio per leggere la scrittura rovesciata.
Spoliazioni napoleoniche
Nel 1796 Napoleone ordinò lo spoglio di tutti gli oggetti artistici o scientifici che potevano arricchire musei e biblioteche di Parigi. Il 24 maggio il commissario di guerra Peignon si presentò all’Ambrosiana insieme all’incaricato Pierre-Jacques Tinet (1753-1803) con l’elenco degli oggetti di cui doveva impossessarsi, fra cui «le carton des ouvrages de Leonardo d’Avinci (sic)». Le casse contenenti gli oggetti d’arte tolti a Milano vennero spedite a Parigi il 29 maggio, ma giunsero solo il 25 novembre. Il 14 agosto venne stabilito di portare la cassa n. 19, contenente il Codice Atlantico, alla Biblioteca nazionale di Francia.
Quando le truppe alleate occuparono Parigi nel 1815, ognuna delle potenze interessate affidò ad un proprio Commissario l’incarico di ricuperare gli oggetti d’arte di cui era stata spogliata; Franz Xaver barone von Ottenfels-Gschwind, incaricato dall’Austria di riprendere gli oggetti d’arte tolti alla Lombardia, essendo questa ritornata sotto il dominio austriaco, non ottenne tutti i codici vinciani sottratti dalla Biblioteca Ambrosiana, benché ne avesse una nota esatta. Quando si presentò alla Bibliothèque nationale, vi trovò solo il Codice Atlantico e non cercò di rintracciare e riavere gli altri manoscritti. Secondo una versione riportata successivamente il barone von Ottenfels-Gschwind avrebbe rifiutato il codice, ritenendolo cinese a causa della scrittura rovesciata di Leonardo; solo grazie all’intervento di Antonio Canova e di Pietro Benvenuti il volume sarebbe tornato a Milano.